Barbiere di Siviglia – Firenze

«Questa regia è un gioco di fantasia e di evocazione. Gli spazi della storia sono sempre evocati, mai rappresentati. La possibilità di evocare la presenza di qualcosa sul palcoscenico è uno degli aspetti affascinanti del teatro. Perciò ho cercato di usare degli oggetti normali e semplici e di farli diventare l’ingrediente unico della scenografia. Il risultato è che mi sono trovato con un palcoscenico in cui una ventina di sedie rosse, una scala blu, degli ombrelli e alcuni enormi palloni erano tutto quello che bastava. I personaggi sono come esplosi nelle loro caratteristiche fisiche e caricaturali. Ecco perciò dei costumi fantastici, di pura immaginazione, con marcati riferimenti a tratti animaleschi, quasi da Commedia dell’Arte. L’ouverture inizia con un viaggio, in treno. Un viaggio che sembra partire in modo normale, senza nessun imprevisto, ma ad un certo punto il ritmo del treno comincia a crescere, cresce, cresce, prende il volo e tutti i tranquilli passeggeri vengono catapultati involontariamente nell’opera diventando i protagonisti di questa surreale dimensione. Il leit motiv del viaggio costituisce la cornice narrativa entro la quale respira il libretto dell’opera, animato da invenzioni sceniche che sfiorano una dimensione circense e dove tutto quello che avviene è sostenuto da una visione coreografica delle relazioni». Parole queste di Damiano Michieletto, adesso regista fra i più affermati, ricercati e controversi del teatro d’opera internazionale, ma ai primi passi in questa professione nel 2005, quando curò quest’allestimento del Barbiere di Siviglia per la Scuola di Formazione del Maggio Musicale Fiorentino, il quale, dopo esser stato proposto nel corso degli anni in diversi altri teatri co-produttori (Jesi, Fermo, Udine e Ravenna), ritorna adesso a casa, sostituendo una produzione del capolavoro rossiniano di José Carlos Plaza allestita più volte al Teatro Comunale. Già allora Michieletto dimostrava di possedere un infallibile senso del teatro. Il palco è spoglio (forse anche troppo, e sicuramente questa è una regia che funziona meglio in palcoscenici più piccoli di quello del Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze): le sedie sono continuamente risistemate in maniera tale da evocare le varie ambientazioni; tale vuoto scenico viene brillantemente riempito dalle bellissime luci ibericamente “solari” di Alessandro Carletti, dalle numerose “trovate” o scenette comiche che costellano l’azione e soprattutto dall’enfasi posta dal regista sulla recitazione degli attori-cantanti, alcuni dei quali vengono rappresentati come animali legati ai loro attributi più rilevanti: Figaro è una volpe, Don Basilio un rettile, e Don Bartolo un cane da guardia, un mastino. L’azione è incorniciata da un viaggio in treno: una voce all’altoparlante comunica che è in partenza dal binario cinque il treno espresso 393 da Firenze a Siviglia immediatamente prima della sinfonia, la quale fa quindi da sfondo a questo viaggio mimato da attori che comicamente seguono il ritmo e gli stimoli della musica, fino appunto ad arrivare a Siviglia; e al termine dell’opera, durante “Di sì felice innesto”, sentiamo nuovamente l’annuncio e i passeggeri prendono i loro posti sul treno per ritornare a Firenze, ossia nella vita reale.
L’eleganza era la cifra stilistica della direzione di Alessandro D’Agostini, il quale ha una visione precisa, finemente dettagliata di quest’opera immortale, e l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino lo asseconda meravigliosamente. I tempi sono spesso ponderati, quasi cauti, ma non si traducono in un’esecuzione slentata, grazie ad un’energia di fondo che non si mostra in tutta la sfrontata spontaneità tipica di esecuzioni più sprizzanti e vitali, ma che pervade tutta l’opera come un quieto fiume sotterraneo.  Ottimo come sempre anche il Coro.  Quasi tutti i tagli di tradizione, soprattutto relativi ai recitativi, sono stati osservati, incluso quello del rondò finale del Conte d’Almaviva (il vero protagonista dell’opera, ove gli si permetta appunto di chiudere l’opera con quell’aria di bravura), interpretato da Francesco Marsiglia, tenore dal timbro molto chiaro e dal volume limitato ma dotato di buona tecnica che gli permette un’emissione omogenea, con un registro acuto ben immascherato e proiettato; non molto precise e snocciolate al contrario erano le agilità, ragion per cui è stata cosa prudente risparmiargli il suddetto temibile rondò. Julian Kim (Figaro), già apprezzato a Firenze alcuni mesi fa nei Puritani, ha bel timbro scuro, morbido e vigoroso al contempo, e acuti facili; anche nel suo caso il canto di coloratura pur non essendo sgranata a dovere, può dirsi competente. Sia Luca Dall’Amico (Don Basilio) che Filippo Fontana (Don Bartolo), pur non potendo sfoggiare timbri di particolare distinzione, hanno offerto prove di tutto rispetto.  Un pochino stridula era la voce della Berta di Irene Favro, che comunque ha saputo prodursi in do acuti penetranti e sonori nel finale dell’atto primo. Completavano il cast William Corrò (Fiorello) e Saverio Bambi (Un ufficiale) Da un punto di vista puramente vocale la migliore in campo era senza dubbio la Rosina di Antoinette Dennefeld, giovane mezzosoprano francese dal bel timbro caldo e ambrato, emissione morbida e omogenea, registro acuto potente e sicuro, agilità ben snocciolate e persino un buon trillo.  Il suo punto debole era la scarsa incisività nei recitativi: la sua era una Rosina dolce e femminile, molto più docile che vipera. Per concludere, il modo di fare leggermente distaccato, il fisico snello, con tanto di vitino di vespa, i grandi occhi azzurri e i lunghi capelli biondi evocavano più un’algida silfide nordica che una caparbia e determinata ragazza sivigliana. Duole dover sottolineare la scarsa presenza del pubblico che ha comunque compensato le numerosissime poltrone vuote con il grande entusiasmo tributato ad ogni artista.

Nicola Lischi

GB OPERA

 



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